by Sara Emma Cervo photo editor e social media manager Yourpictureditor
Strade allagate, piani terra sommersi e 187 centimetri di acqua (dal livello del mare): è la notte del 12 novembre 2019 a Venezia. Danni, molti. Non c’è giornale, magazine che non abbiano parlato dell’evento che ha scosso il capoluogo del Veneto. Le immagini passate in tv, in internet e attraverso la carta stampata, hanno mostrato la più cruda realtà. Foto spesso d’assalto, molto lontane da Era Mare, il foto libro autofinanziato e autoprodotto da chi con la fotografia e la grafica ci lavora costantemente. Ideato e finito in «in tempo record». Ce lo racconta Francesca Seravalle, che insieme al fotografo Matteo de Mayda, Andrea Codolo e Giacomo Covacich, rispettivamente designers e publishers di bruno, ha pensato all’arte per aiutare l’associazione culturale Do.Ve. Una rete di attività commerciali e privati impegnati nella tutela e valorizzazione di un’estesa area del sestiere di Dorsoduro. L’intero ricavato, (il libro lo si può acquistare qui) infatti, andrà a questa realtà per rialzarsi.
Con Era Mare voi avete scelto un altro linguaggio: no a scatti di cronaca sì a immagini evocative. Da cosa questa scelta?
È una scelta di gruppo. Abbiamo preferito evitare ogni aspetto sensazionale del dramma e lavorare su un concetto più postmoderno: il post-dramma, ossia lo stress delle tre settimane successive, in cui l’acqua alta era un fenomeno quotidiano.
Questo permetteva di cambiare l’approccio del racconto, invece che parlare del passato, del 12 novembre abbiamo aperto nuovi interrogativi sul futuro di Venezia. Abituati ad infilarci gli stivali di gomma ogni giorno, a muoverci secondo le maree, a evitare certe zone troppo basse, agli aggiornamenti del bollettino delle maree e dei venti, e soprattutto alle sirene delle maree che suonavano almeno 2 volte al giorno, alla fine ci sentivamo degli anfibi, dei tester.
Ormai l’acqua non era più la stessa, era “cheta”, era apparentemente pacifica ma continuava a mantenere la città continuamente bagnata.
Ecco che le immagini equilibrate e dai colori delicati di Matteo esprimevano perfettamente questa situazione di apparente calma, di ambigua bellezza e della difficoltà di assistere ad un continuo e lento allagamento della città.
Abbiamo preferito anche evitare ogni spettacolarizzazione del dramma per rispetto degli abitanti, perché i veneziani ci tengono molto all’immagine della propria città, e perché entrare nelle case e nei negozi allagati, con tutte le merci rovinate e da buttare, poteva sembrare un gesto di sfruttamento del dolore degli altri. Lo scopo del progetto infatti è quello di aiutare concretamente Venezia a risollevarsi.
Il libro è autofinanziato e nasce da diverse menti, eppure in poco tempo lo avete messo in piedi. Com’è stato lavorare e pensare tutto nell’arco di un mese, oltretutto prima che il disastro rischiasse di passare nuovamente in sordina?
Beh il progetto è nato da un incontro in cui eravamo tutti d’accordo sull’immagine che volevamo restituire dei fatti. È stato molto veloce perché portare il nostro contributo alla città intervenendo con un aiuto vero il prima possibile.
Matteo, che si trovava a Venezia per eseguire alcuni reportage, avendo sin dall’inizio le idee chiare di come rappresentare la situazione, ha realizzato tutte le fotografie in pochi giorni. È stato un vero sodalizio, quasi un miracolo per un libro, abbiamo lavorato tutti con estrema libertà e ognuno ha avanzato proposte, quasi sempre ben accolte da tutti, sono bastati alcuni incontri tutti assieme per perfezionare l’editing delle immagini, Andrea e Giacomo dall’altra parte sono stati molto bravi e veloci, hanno immediatamente immaginato questo libro tagliato a metà, individuato le carte giuste, fatto il layout e gestito la produzione in tempi record.
A quel punto ho contribuito con un testo che si svolge pagina per pagina affiancando il racconto alle immagini. Poi abbiamo stampato a Venezia da Grafiche Veneziane, anche loro avevano subito danni, e per questo volevano partecipare al progetto.
Non solo immagini, ma anche un racconto: The Drowned World di Ballard. Qual è il legame fra i due linguaggi?
Quando cercavo il tono delle parole per il racconto che accompagnasse le immagini ho subito escluso la descrizione del momento dell’inondazione, dovevo trovare uno stile che traducesse in parola le stranezze nascoste nelle immagini apparentemente quiete di Matteo, in cui tutti gli elementi urbani avevano cambiato senso: i lampioni, normalmente in mezzo alle fondamenta facevano da palo alle barche, le calli e i canali non si distinguevano più se non per la segnaletica sui muri, i ponti univano due zone allagate etc… Il paesaggio urbano era profondamente cambiato, sembrava che si fosse avverato un dramma di un romanzo di fantascienza.
Ecco che Drowned World di Ballard, scritto nel 1962, uno dei primissimi romanzi distopici, mi è venuto alla mente. Infatti inizia con una persona che si affaccia dal balcone e vede la propria città sommersa dall’acqua. La mia generazione (e quella degli altri miei compagni di avventura) è cresciuta con libri, film e di fantascienza e persino cartoni animati sulla fine del mondo, ma ci sono sembrati sempre lontani, irrealizzabili.
Ho pensato che un racconto post-apocalittico potesse svegliare di più le coscienze sui problemi ambientali futuri (di Venezia e non solo) e allo stesso tempo scongiurarne il compimento, mantenendo però un tono poetico.
Era Mare, questo il titolo. Nulla di drammatico, doloroso e spaventoso. Da dove la scelta?
Il titolo doveva essere evocativo, un suono che unisse l’estetica delle immagini di Matteo e l’intervento grafico della casa editrice bruno, il taglio in due delle immagine: quella intatta dall’inondazione e quella sommersa. Ho capito fin da subito che bisognava lavorare su Venezia e il suo doppio, sulla specularità, sul dramma e sullo scongiuro, sulla saturazione di bellezza e di informazioni e sulla sua ambiguità. Ecco che proposi un titolo palindromo “Era mare” proprio perché nell’immagine e nell’identità stessa di Venezia c’è sempre la sua immagine riflessa, c’è sempre l’elemento acqua. “Era mare” ha anche questa fluidità musicale che ricorda lo sciabordio della marea che sale e scende. “Era mare” inoltre serve a ricordare un momento di rottura particolare tra che i veneziani hanno avvertito con l’ambiente lagunare dalla prima inondazione (dal 12 al 28 novembre e ancora in dicembre 2019) in cui il gradiente di salinità è aumentato notevolmente quando la laguna si ubriacò di acqua marina apportando danni enormi.
Domanda di rito: oggi sei curatrice, lavori a stretto contatto con l’arte contemporanea e la fotografia. Era questo il tuo sogno nel cassetto?
Beh da piccola ero incerta se diventare un’inventrice di macchinari tecnologici, un’archeologa, una scrittrice e una maestra, in un certo senso, attraverso la curatela, sono riuscita a far confluire le mie diverse passioni, specialmente col progetto sulle prime fotografie e sui primi test delle invenzioni fotografiche. E poi l’insegnamento che permette di divulgare, confrontarsi con il pensiero nuovo, continuare a studiare e a fare ricerca.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.