di Sara Emma Cervo, photo editor e social media manger Yourpictureditor
Solo poco più di un anno fa Trump, ancora non eletto 45° presidente degli Stati Uniti d’America aveva annunciato la costruzione di “un vero e proprio muro. Non un muro giocattolo come ora” con il Messico. Come se la caduta del muro di Berlino in data 9 novembre 1989, simbolo di libertà, fosse solo una delle tante “notizie” da (ri)leggere su Wikipedia. Eppure c’è chi ci apre gli occhi, spesso è merito della fotografia: fino al 10 di dicembre, con Borderlines Città divise/Città plurali lo farà la decima Biennale dell’Immagine. Una ventina le esposizioni da visitare, alcune in gallerie associate, altre, tre per la precisione, selezionate dal Comitato Scientifico dell’associazione. Immancabilmente c’è Berlino con con quattro autori: Giuseppe Chietera, Roberto Mucchiut, Domenico Scarano, Fabio Tasca; c’è Michael Wolf con le sue città, “l’umanità – o inumanità – della vita urbana” per citare il testo di accompagnamento. Poi ci sono Paola di Bello con Chiasso-Ponte e Giacomo Bianchetti con Flow/Flusso. Qui, il tema è il confine Svizzera-Italia. Quella “striscia” «attraversato ogni giorno da 60.000 frontalieri» mi racconta Antonio Mariotti, del Comitato Scientifico e co-curatore di questa esposizione.
Come e quando nasce la Biennale dell’immagine?
Nasce 21 anni fa a Chiasso su iniziativa di Domenico Lucchini, allora addetto culturale della città. Fin da subito, ha avviato una collaborazione fra enti privati, con gallerie, che si occupavano di fotografia, prima fra tutte la Cons Arc di Guido e Daniela Giudici. Nei primi anni le mostre erano strettamente legate a quei temi “vicini” a Chiasso, quindi la frontiera, la migrazione, il lavoro e lo sviluppo urbano. Dall’altra, allora come oggi, si è andato alla scoperta di spazi espositivi inediti e scelti luoghi quali i magazzini della stazione ferroviaria, piuttosto che fabbriche in disuso.
Qual è la novità per questa decima edizione?
Il cambiamento principale di quest’anno è che la Biennale è stata organizzata da un’associazione costituitasi l’anno passato e non più dall’ufficio culturale del Comune, che invece si occupa della gestione del m.a.x. Museum. Ora in mostra con Oliviero Toscani. Immaginare
Il tema di questa decima edizione è Borderlines Città divise/Città plurali. Da cosa è derivata questa scelta?
È stata una scelta sofferta, caratterizzata da lunghe discussioni all’interno del comitato. Oggi più che mai ci sembrava importante parlare di Città Divise, oggi, in un momento in cui si pensa di poter risolvere tutto costruendo muri – fra persone, comunità, paesi – solo per bloccare quei flussi che in realtà ci sono sempre stati. Era fondamentale per noi mostrare le città come sono, ovvero un organismo vivente che non può essere suddiviso né spezzato senza avere delle conseguenze drastiche sulle esistenze di chi ci vive.
Tante mostre con altrettanti curatori. Come mai la scelta di non puntare solo su un unico direttore artistico?
La scelta è legata alla nostra storia. All’organizzazione della Biennale ha sempre partecipato un gruppo di persone, ristretto, ma che da anni organizza l’evento. Pertanto, introdurre una figura quale quella del direttore artistico, al momento, non ci è apparsa una necessità. Certo, non escludiamo che in futuro possa cambiare qualcosa, diciamo che tireremo le somme alla fine di questa edizione.
Come avete selezionato le mostre, quelle organizzate da voi e quelle esposte nelle gallerie?
Gli spazi esterni, le gallerie coinvolte, hanno una relativa libertà, anche se le loro esposizioni devono essere approvate dall’organizzazione e devono avere sempre un legame con il tema principale. Mentre per le mostre scelte da noi è il comitato a occuparsene. Visto il tema di quest’anno, fin da subito si è sentita la necessità di lavorare su Berlino, che è l’emblema città divisa/città plurale. Così Gianfranco Ragno, parte del comitato scientifico, ha coinvolto quattro fotografi per Berlin Moving Still. Altra mostra principale, allo Spazio Officina, è Life in Cities di Michael Wolf. Il nome del fotografo tedesco circolava già da tempo, e del tutto casualmente avevamo saputo che la sua sua retrospettiva veniva presentata a Les Rencontres de la Photographie di Arles 2017; per un colpo di fortuna, inoltre, abbiamo scoperto che Life in Cities, prodotto dal Fotomuseum den Haag di L’Aia, aveva un “buco” in autunno, prima di essere riportata lì dove è nata. Così, ne abbiamo approfittato, e oltre a concretizzare il sogno di esporre il lavoro di Michale Wolf a Chiasso abbiamo presentato la mostra in seconda mondiale. La terza, infine, è Al Limite, un’esposizione che vede coinvolti due lavori: da un lato i dittici della milanese Paola di Bello, strettamente legati al tema della frontiera, dall’altra quelli di Giacomo Bianchetti, nato in Ticino ma residente a Losanna, che ha come soggetto i frontalieri. Al limite è molto particolare, come vuole lo spirito della Biennale, sia per lo spazio non strettamente espositivo, un bar/negozio a pochi passi dalla dogana di Chiasso, e poi per il tema: quella linea di confine fra Svizzera e Italia varcata ogni giorno da circa 60.000 persone.
Che tipo di partecipazione c’è? Solo locale o internazionale?
Sicuramente c’è una fetta importante di locali che partecipa alle esposizioni, ma non l’unica. Quest’anno, in parte perché attratto dalle mostre e in parte perché Chiasso e Zurigo sono ormai ben collegate, una buona parte del pubblico è arrivato dal nord delle Alpi, quindi dal resto della Svizzera e una parte dalla zona di confine di Milano.
Oggi sei giornalista e sei parte del comitato della Biennale dell’Immagine. Era questo il tuo sogno nel cassetto quando eri bambino?
Quando ero bambino forse no, ma quando ero adolescente ricordo di aver passato pomeriggi e serate a sviluppare fotografie in camera oscura. Non ho mai avito l’aspirazione a diventare un fotografo, era per me un hobby, ma che mi piaceva, come del resto mi è sempre piaciuto scrivere. Da lì il salto verso il giornalismo. Quindi visto che con la Biennale dell’Immagine ho potuto coniugare le mie passioni allora sì! Posso dirti che questo era il mio sogno e che l’ho realizzato.
Biennale dell’Immagine
Sedi Varie
Fino al 10 dicembre
Foto di apertura: Michael Wolf, Architecture of density dalla mostra “Life in cities”
Antonio Mariotti è nato a Mendrisio nel 1960. Membro dell’Associazione Svizzera dei Giornalisti Cinematografici, è capo servizio per il Corriere del Ticino. In passato ha collaborato con la televisione della Svizzera italiana (TSI) come ricercatore per sceneggiati a carattere storico, aiuto-regista e giornalista. Ha realizzato alcuni cortometraggi fra cui Panopticon e Verdemare, e un documentario sul fotografo bleniese Roberto Donetta, La fotografia non basta alla vita. È stato responsabile dell’ufficio stampa del Festival internazionale del Teatro di Lugano. È stato membro nella Commissione Artistica di Castellinaria, Festival internazionale del Cinema Giovane, Bellinzona; del Comitato di Selezione della «Settimana della Critica» del Festival internazionale del Film di Locarno e della Commissione di Nomina del Premio del Cinema Svizzero. Dal 2004 è parte del comitato organizzatore della Biennale dell’Immagine di Chiasso. Ha curato la mostra Jean-Pierre Pedrazzini. Fotoreporter di Paris Match 1927-1956, Polaroid del fotografo Marco D’Anna e On the Road: Leonilda Prato e Roberto Donetta fotografi ambulanti a cavallo delle Alpi nei primi decenni del XX secolo presso la Casa Rotonda di Corzoneso. Dal 2014 è coordinatore del Consiglio della Fondazione Archivio Fotografico Roberto Donetta. In questa Biennale dell’Immagine ha curato Al Limite.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.