di Francesca Ambrosi, senior account manager Yourpictureditor
Fotografo, oltre che editore (Edizioni della Meridiana) e docente. Fiorentino. Con una enorme passione per l’Armenia. E Luce Armena si intitola la mostra di Andrea Ulivi presso il Palazzo Vescovile di Grosseto, visibile fino al 18 novembre. Se per lui «la fotografia, come la poesia, è una forma di attenzione alla realtà», in questa esposizione tutta l’attenzione è rivolta all’Armenia. Lo incontro e mi faccio raccontare come nasce questo idillio, e cosa è venuto a significare per lui puntare l’obiettivo su questo paese.
Luce Armena. Una mostra fotografica interamente dedicata all’Armenia. Come nasce il tuo rapporto con questo Paese?
Il rapporto con l’Armenia è nato grazie a Versiliadanza: nel 2006 l’Associazione ha conosciuto la compagnia di teatro Small Theatre di Yerevan e il regista Vahan Badalyan, con cui è nato un rapporto molto stretto, un’amicizia fraterna. Loro stessi sono stati i primi che nel 2008 mi hanno accompagnato a vedere e conoscere questi luoghi: il rapporto con questo paese, il fotografarlo, è stato quindi il frutto di un’amicizia. Ho iniziato a incontrare i luoghi della spiritualità armena e la città di Yerevan. Da allora in poi sono ritornato almeno una volta all’anno, grazie anche alla collaborazione con l’ambasciata italiana a Yerevan: spesso, in ottobre, sono stato coinvolto nella settimana della lingua italiana. Dai miei viaggi, tra il 2008 e il 2014, ha preso forma un corpus fotografico di circa 10.000 fotografie.
Cos’è per te la fotografia? e in che relazione sta l’Armenia?
La risposta è forse pretenziosa, ma allo stesso tempo umile: non è un intervento nel sociale, oppure una denuncia, o un modo di esprimermi. La fotografia per me è una domanda. Una domanda che genera uno stupore e uno stupore che continuamente genera una domanda.
Credo che l’atteggiamento originario, sorgivo, che permette un’apertura totale della visione, sia esclusivamente lo stupore. Solo dallo stupore sgorga la domanda all’essere, alla vita, al creato, là dove abita il senso, là dove la cosa è intrisa di senso, di quel senso che troppo spesso non sappiamo vedere. Solo dallo stupore possono nascere compassione e commozione. «Fra quattro mura stupefatte di spazio», scriveva Clemente Rebora (Dall’immagine tesa, in Canti anonimi del 1922 n.d.r.), si muove lo sguardo dell’obiettivo, rapito da questo stupore, teso all’infinito e alla creazione continua, arso dal fuoco dell’immagine. Uno stupore vissuto e restituito, testimoniato, come ebbe a scrivere Roland Barthes: «Sempre la Fotografia mi stupisce, ed è uno stupore che dura e si rinnova, inesauribilmente.» (La camera chiara. Nota sulla fotografia, 1980 n.d.r).
L’Armenia mi ha stupito, l’ho vista con fascinazione, me ne sono innamorato: è un rapporto amoroso, assolutamente amoroso. Io amo l’Armenia e fare fotografie a questa terra è un gesto d’amore totale. Non potrei fotografare qualsiasi cosa, non mi riuscirebbe: se non entro in un rapporto reale col soggetto, o l’oggetto, non riesco a fotografare, non riesco fisicamente.
Quando dico domanda è perché io domando: «chi sei tu che stai davanti a me, chi sei tu per me tanto da starti davanti?» Ma anche le cose che fotografo mi domandano: «perché mi stai fotografando?».
Fondamentali per me le parole che Wim Wenders usa all’interno del testo In defense of places, quando spiega il suo essere fotografo di luoghi: «I guess that’s why I take pictures of places:/ I don’t want to take them for granted./I want to urge them/not to forget us.» Fotografare i luoghi affinché questi stessi luoghi non ci dimentichino. Non fotografo i luoghi per ricordarli, ma per essere; perché questi luoghi non ci dimentichino, là dove lasciamo le nostre tracce come in un deserto. Soffia il vento. Le dune di sabbia vengono spazzate via. Ma nel profondo le tracce rimangono. Anche se non si vedono.
E un mio sogno, da tarkoskijano quale sono, sarebbe riuscire a fotografare e restituire in una sola forma il visibile e l’invisibile. Cioè la forma stessa e l’essenza.
Gli elementi fondanti della fotografia sembrano ripercorrere, anche e soprattutto nelle loro accezioni linguistiche o lessicali, la struttura stessa dell’essenza ontologica della vita, come a sottolinearne i cardini, tanto da restituirci lo strumento fotografico avvolto nell’ontologia stessa dell’essere nel mondo. Il fuoco, l’infinito, l’inquadratura, il tempo, lo spazio, il diaframma, lo specchio. E soprattutto il fuoco, soprattutto l’infinito. L’obiettivo, occhio stupito, cerca di tendersi all’infinito. Ed è tatuato con il simbolo dell’infinito, ne è segnato, marchiato.
Il titolo della mostra contiene la parola luce. Perché la scelta del solo bianco e nero?
Tarkovskij in Scolpire il tempo. Riflessioni sul cinema (Ist. Internazionale Tarkovskij editore, 2015) dice che il b/n è il modo più vero in fotografia e nel cinema per rappresentare la realtà.
Non c’è pellicola, e oggi sensore, che possa restituire l’intero spettro di colori che il nostro occhio riesce a vedere. Il colore è sempre una copia della realtà: il colore si riscatta quando il fotografo -penso a Chiaramonte, Meyerowitz, Shore– usa il colore come interpretazione, non come copia della realtà. Il bianco e nero è per sua natura una interpretazione; sì, i nostri occhi vedono a colori, ma è lo spettro monocromatico del bianco e nero che meglio restituisce la realtà come visione e l’essenza della forma della realtà stessa. Una forma che viene fuori nella sua essenza, non disturbata da dominanti di colore, ma abbracciata da una variegata presenza di grigi, di bianchi o di neri.
Spiritualità e Sacro raccontati in fotografia. Cosa hanno cercato il tuo occhio e il tuo obiettivo in quella terra?
Nelle fotografie della mostra si dedica molto spazio alla spiritualità del popolo armeno, innanzitutto illustrando le chiese e i monasteri tipici della loro grande cultura. Le immagini sono suddivise in due parti: la prima parla dei luoghi sacri al popolo armeno, la seconda mette a fuoco i volti della gente armena. Le due parti sono connesse: preponderante la prima, come numero di scatti e suggestioni, la seconda con riferimenti alla realizzazione dei nuovi khachkar, ai costumi tipici, ai cantori tradizionali, alle donne o ai bambini, il tessuto di un popolo che vive, orgoglioso della propria armenità.
I luoghi sono quelli tipici della spiritualità visti con l’occhio della fascinazione per un paese antichissimo, le cui radici affondano profondamente nelle origini del mondo. Luoghi di un popolo che conserva gelosamente la sua appartenenza al cristianesimo originario. Le chiese splendono e riflettono la luce dell’altopiano assolato. E la luce, la luce armena, è una luce mistica, commovente. La luce armena è una luce forte che d’estate è accecante.
I grandi luoghi della spiritualità armena sono questi monasteri, queste chiese che stanno nell’altopiano caucasico, dove spunta il monte Ararat, e la catena montuosa dell’Aragats.
Queste perle – in Armenia i paesaggi sono maestosi, le chiese no – stanno isolate sull’altopiano, colte da questa luce, ed è come se la restituissero, se la riflettessero come specchi.
L’interno invece è oscurità, come un antro intimo, un utero che protegge e porterà alla luce la vera anima di un popolo. L’oscurità interna è inversamente proporzionale al lucore esterno, quasi come se la conservasse tutta quella luce, per poi restituirla come vita.
Però mi piace anche pensare che la somma di tutti quei colori che il nostro occhio vede è il nero, l’oscurità, l’oscurità che conserva, l’oscurità che contiene, l’oscurità che custodisce.
E custodisce quel bagliore accecante anche attraverso piccole esperienze di luce, ma fondamentali, profonde, come quelle delle candele. Candele fini, lunghe, gialle, offerte.
Queste chiese sono illuminate soltanto da candele, da queste piccole candele, e dalla luce radente che viene da finestre laterali, che esaltano anche le forme dell’altra grande esperienza artistica armena: l’antichissimo khachkar -letteralmente “croce di pietra”- presente ovunque con la sua bellezza. Il khachkar viene ancora oggi costruito come mille anni fa – e anche le chiese vengono costruite con il criterio antico. Il khachkar è un’esperienza, e non soltanto un’opera d’arte o di artigianato: è un’offerta a Dio. È un oggetto sacro.
Fotografo, editore, docente. Ma da piccolo, cosa sognavi di fare da grande?
Mio padre a 11 anni mi mise al collo una Ferrania Condor I del 1948 -la Leica italiana- costruita interamente a Firenze nelle Officine Galileo.
Con mio padre ho scoperto e condiviso l’esperienza del bianco e nero, della camera oscura, della stampa delle fotografie.
Il gesto fotografico è l’eredità più importante, insieme all’educazione, che mi ha lasciato mio padre.
Credito immagine di apertura: Monastero di Kecharis, 2009
Luce Armena, opere di Andrea Ulivi
Sala S. Lorenzo del Palazzo Vescovile, Grosseto
Fino al 18 novembre
Andrea Ulivi, fotografo, editore e docente. È nato a Firenze nel 1960, dove si laurea in Letteratura italiana. I suoi maestri sono il regista Andrej Tarkovskij, che conosce nel 1984, e il poeta Mario Luzi. Lavora nel mondo dell’editoria, prima a Firenze, poi Bologna e Milano. Nel 1998 fonda a Firenze la casa editrice Edizioni della Meridiana. Insegna presso la Scuola di Editoria di Firenze. È stato docente incaricato di fotografia, cinema e televisione presso la Facoltà di Architettura di Siracusa. In campo fotografico ha realizzato mostre personali tra cui Zona Tarkovskij, San Miniato. Una porta di speranza, Luce armena, Della mia dolce Armenia, oltre ai volumi Nel bianco giorno, Luce armena, Il verde e la roccia, Eye Flow. Ha esposto le sue opere in Italia, Armenia, Europa, Stati Uniti. Ha in preparazione un libro fotografico sull’ex carcere delle Murate di Firenze. Pubblica regolarmente le sue fotografie sulla rivista Il Governo delle idee. Ha curato mostre e volumi fotografici. Ha scritto saggi su fotografia, letteratura e cinema (in particolare su Andrej Tarkovskij). È curatore per l’Italia degli scritti del regista Andrej Tarkovskij. È fotografo di scena per la Compagnia Versiliadanza e per il Teatro Cantiere Florida di Firenze. È membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Vittorio e Piero Alinari. Cura con Andrej A. Tarkovskij l’Istituto Internazionale Andrej Tarkovskij. Vive e lavora a Firenze.
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